Obesità e Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione. Il loro legame è spesso una delle cause dei fallimenti degli interventi per la perdita di peso corporeo.

Le ricerche indicano un’elevata presenza di comorbidità psichiatrica (Disturbi dell’Umore, Disturbi d’Ansia, Disturbi di Personalità, ecc.) nei soggetti con obesità patologica: questa occorrenza è una delle principali cause del fallimento degli interventi per la riduzione del peso corporeo.

Le persone con obesità, a causa della presenza di queste comorbidità, mostrano maggiori difficoltà nell’adattarsi alle nuove richieste, nell’affrontare lo stress, nel cambiare stile di vita, nel seguire le indicazioni terapeutiche, ecc.

Di conseguenza, la complessità di queste condizioni implica la necessità di un intervento multidisciplinare e dell’affiancamento ai diversi e possibili trattamenti per il calo ponderale (nutrizionale, chirurgico e farmaceutico) della valutazione psicologico-psichiatrica prima e del sostegno psicologico-psicoterapeutico dopo.

Queste difficoltà riguardano, in particolare, quei soggetti con obesità in comorbidità con un Disturbo dell’Alimentazione e della Nutrizione (DAN). Infatti, obesità e DAN sono fenomeni profondamente collegati:

Spesso le persone con obesità sono ignare di questi loro disfunzionali modi di essere, attribuiscono così il fallimento (più spesso i fallimenti) alla loro incapacità e/o inadeguatezza, sviluppando e alimentando così un circolo vizioso di sentimenti negativi (senso di colpa, vergogna, frustrazione, bassa stima di sé, ecc.) che a loro volta alimentano e perpetuano il manifestarsi del/i disturbo/i e del nocivo rapporto con il cibo.

I percorsi di trattamento e cura dell’obesità e dei DAN richiedono un cambiamento significativo in diversi aspetti di noi stessi e della nostra esistenza, di conseguenza, generalmente, il processo risulta lento, lungo e difficoltoso. Ma, con l’adeguata motivazione, il giusto supporto e una équipe di professionisti preparati è possibile migliorare sé stessi e le proprie condizioni di vita.

C. Julmi ed E. Schern (cap. 10, in “Psicopatologia e atmosfere”, G. Francesetti e T. Griffero, 2022) analizzano, dal punto di vista fenomenologico, il fenomeno del Burn Out. Partendo dalla descrizione che si trova in letteratura (Maslach et al., 2001) ne delineano le caratteristiche che si esplicitano nell’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la percezione di una ridotta capacità di rendimento.

Secondo gli autori, l’esaurimento nervoso è la risultante di una prolungata esperienza di stress, nella forma di una tensione o di una pressione percepita e costante:

“… in una situazione stressante l’energia proprio-corporea è fortemente sollecitata. Lo stress, dunque, nasce innanzitutto come uno sgradevole stato di tensione allorché una situazione giudicata rilevante viene percepita a livello atmosferico come incontrollabile, nonché come fastidiosa e opprimente; quando accade di trovarsi stabilmente in siffatte incontrollabili situazioni, che logorano costantemente l’energia proprio-corporea, si giunge al punto in cui tale energia si esaurisce, aprendo la strada all’esaurimento emotivo (C. Julmi ed E. Scherm, 2022).”

Queste parole descrivono molto bene quelle situazioni lavorative in cui è a rischio la nostra identità personale e ci sentiamo demotivati, disattenti, inefficienti, sempre stanchi e nonostante il riposo non riusciamo a recuperare le energie. 

Un’altra conseguenza della perdita di energia è il manifestarsi di un senso di alienazione dal mondo e dagli altri (Fuchs, 2000), che si traduce in sentimenti di indifferenza e apatia. Questa è la fase della depersonalizzazione, dove l’essere nel mondo è caratterizzato da senso di estraniamento da sé stesso e dagli altri, e da una significativa difficoltà nei rapporti interpersonali (Maslach et al., 2001). Vi è una sorta di avvitamento su sé stessi, di chiusura nei confronti del mondo e delle altre persone a scopo difensivo e protettivo. Un aspetto interessante della depersonalizzazione così intesa è, secondo C. Julmi ed E. Schern (2022), che risulta in parte determinata da un ambiente orientato in maniera eterodiretta (ossia da altri e non da noi, imposta) al risultato. Un ambiente siffatto, in cui una delle caratteristiche principali è il controllo, promuove sentimenti di sfiducia, l’esaurimento delle energie corporee, l’indebolimento del legame affettivo con l’ambiente e le persone coinvolte, e, infine, ostacola il coinvolgimento e la crescita personale. Inoltre, essendo la depersonalizzazione un disturbo del legame affettivo con l’ambiente, gli individui che ne sono affetti subiscono un globale calo della motivazione e del senso di autoefficacia.

L’aspetto interessante di questa visione è che questo fenomeno potrebbe estendersi, oltre all’ambiente lavorativo, a tutti quei luoghi che, anche non condividendo le stesse caratteristiche, vengono strutturati come quest’ultimo: la famiglia, la scuola, la relazione affettiva, l’attività sportiva, ecc.

Questo modo di intendere tale fenomeno potrebbe avere importanti ripercussioni sulle modalità di intervento in quei casi in cui tali ambienti siano disfunzionali per l’individuo.

La terza fase si esplica nella percezione della ridotta capacità di rendimento. Qui la sensazione predominante è quella di sovraffaticamento, l’individuo non si sente in grado, per energie e competenze, di riuscire a far fronte alle richieste dell’ambiente o presunte tali. Infatti, a volte, è l’individuo stesso a creare queste condizioni riponendo su sé stesso delle aspettative eccessive.

Secondo gli autori, il manifestarsi del burn-out è la conseguenza della relazione tra la rottura del legame affettivo con l’ambiente, caratteristica della depersonalizzazione, e il sovraffaticamento causato dalla percezione delle ridotte capacità di prestazione. 

A fini preventivi è utile imparare a tracciare dei confini tra sé e sé, e tra sé e gli altri evitando di farsi carico di qualsiasi richiesta e imparando anche a dire di no ad alcune richieste che potrebbero sovraccaricarci. Inoltre, è importante riuscire a riconoscere i possibili campanelli di allarme, come ad esempio quelli che caratterizzano gli ambienti che non permettono l’autodeterminazione e la realizzazione di sé.

BIBLIOGRAFIA

Francesetti G., Griffero T. (2022). Psicopatologia e atmosfere. Prima del soggetto e del mondo. Giovanni Fioriti Editore, Roma 2022.

I fattori che possono svolgere un ruolo nel manifestarsi di un Disturbo dell’Alimentazione e della Nutrizione sono di diversa natura (biologica, psicologica e sociale) e, generalmente, vengono classificati in predisponenti, perpetuanti il disturbo e iatrogeni. 

I primi riguardano:

All’interno dei fattori predisponenti un ruolo preponderante lo assumono le caratteristiche psicologiche: a) tendenze ossessive espresse fin dall’infanzia; b) perfezionismo (ad es., essere la prima della classe); c) aspettative esasperate su se stessi; d) grandi difficoltà nel processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali; d) rifiuto del corpo adulto e della sessualità; e) fissazione all’infanzia e a forme infantili di dipendenza e di controllo; f) narcisismo patologico; g) scarso controllo degli impulsi; g) intolleranza alle frustrazioni; h) tendenza a bruschi cambiamenti d’umore; i) soggezione al mito del successo; l) bisogno di rispondere sempre alle attese sociali e di compiere al meglio le prestazioni richieste; m) dipendenza dal consenso e dall’ammirazione degli altri; n) fattori familiari che possono svolgere un ruolo protettivo o di rischio.

Il secondo tipo di fattori

ossia quelli che tendono a perpetuare la sindrome riguardano:

fattori di natura iatrogena

Infine, ci sono i fattori di natura iatrogena di cui sono responsabili gli “operatori sanitari” e le cure che forniscono:

I Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione sono disturbi complessi che, come abbiamo visto, dipendono da molteplici cause e motivazioni, e che per questo richiedono l’intervento di professionist”i” qualificati e competenti.

In riferimento ai modelli psicologici presentati nell’articolo al seguente link sono diversi gli interventi psicologici che possono essere utilizzati durante la riabilitazione e per il ritorno all’attività sportiva.

Quali Interventi psicologici nell'infortunio sportivo utilizzare

Questa varietà permette, di volta in volta, di intervenire sulle diverse dimensioni psicologiche implicate. Ad es., si può intervenire sulla valutazione cognitiva con il self-talk, o con il biofeedback per fornire informazioni sul recupero; si può migliorare la gestione delle emozioni attraverso l’educazione e le visualizzazioni, e, ancora, si può migliorare la motivazione utilizzando la tecnica del goal-setting o tramite il supporto sociale.

L’intervento educativo aumenta la consapevolezza dell’atleta a proposito della propria situazione e fornisce una visione più chiara del processo di riabilitazione: questo permette di mitigare le emozioni negative, ad es. riducendo ansia e depressione, di migliorare la motivazione e la fiducia in sé stessi. 

Un altro intervento che ha importanti ripercussioni sulla motivazione e sull’impegno dell’atleta è quello del goal-setting, risultando uno dei più efficaci per un miglior ritorno alla competizione. Per essere efficace il goal-setting deve avere alcune caratteristiche: 

Un programma basato sul goal-setting riduce l’ansia, migliora il senso di autoefficacia, l’aderenza al programma e fa percepire il trattamento come più efficace.

Un’altra tecnica spesso impiegata nel processo riabilitativo riguarda l’utilizzo delle visualizzazioni. Oltre a promuovere un miglior ritorno alla competizione, il suo impiego facilita il mantenimento delle abilità individuali e tattiche, e aumenta la fiducia in sé stessi. Se utilizzata in associazione con le tecniche di rilassamento (ad es. il rilassamento muscolare) riduce stress e ansia, e migliora le capacità di affrontare il dolore.

Infine, il self-talk, attraverso la ristrutturazione cognitiva, il pensiero positivo e l’automonitoraggio, aiuta l’atleta a riconoscere e modificare i pensieri negativi che potrebbero ostacolare il recupero e aiuta a ridurre le preoccupazioni.

Alvaro Fornasari

Articolo a cura del dott. Alvaro Fornasari psicologo e psicoterapeuta a Vigevano è possibile prenotare un appuntamento presso la sede.

Il dott. Fornasari è iscritto all'albo degli psicologi della regione Lombardia e si occupa professionalmente di Interventi psicologici nell'infortunio sportivo.

In questo articolo vorrei esporvi brevemente alcuni dei modelli psicologici maggiormente utilizzati in fase di riabilitazione in ambito sportivo in seguito a un infortunio. Tra questi troviamo il modello bio-psico-sociale, il modello di valutazione cognitiva, il modello per fasi e il modello motivazionale.

Il modello bio-psico-sociale

Nel modello bio-psico-sociale, l’infortunio e l’outcome del processo riabilitativo vengono caratterizzati attraverso 7 dimensioni: i fattori socio-demografici, i fattori biologici, i fattori psicologici, i fattori sociali e contestuali, i risultati intermedi bio-psicologici e quelli finali post-infortunio. Questi fattori sono relati reciprocamente tra di loro e con i risultati a medio e lungo termine.

Innanzitutto, le dimensioni biologica, psicologica e sociale sono influenzate da diversi fattori (cause, tipo e localizzazione del danno, severità dell’infortunio, storia dell’atleta e dei precedenti infortuni, età, genere, etnia, status socio-economico); a loro volta, queste dimensioni, influenzano i risultati a medio termine come la capacità di movimento, la forza e la resistenza, la percezione del dolore, la lassità articolare e la durata del recupero. Infine, i risultati a medio termine influenzano quelli finali della riabilitazione come le prestazioni funzionali, la qualità della vita post-infortunio, la soddisfazione rispetto al trattamento e il desiderio di tornare a praticare sport.

Modello della valutazione cognitiva

Secondo il modello della valutazione cognitiva, proposto prima da Brewer (1994) e integrato successivamente da Weise-Bjornstal e coll. (1998), la risposta emotiva all’infortunio (ad es., paura, rabbia, tristezza, ansia, ecc.) è influenzata dalla valutazione cognitiva che l’atleta fa della situazione. La valutazione cognitiva, a sua volta, subisce l’influenza dei fattori psicologici, di personalità e situazionali. Una valutazione cognitiva disfunzionale avrebbe esiti negativi sul comportamento dell’atleta e sulla sua aderenza al programma di riabilitazione, inficiando di conseguenza i risultati di quest’ultima.

Modello a stadi

I modelli a stadi postulano che l’infortunio sia seguito da una successione di emozioni e atteggiamenti/attitudini: un po’ come prevedono alcune teorie sul lutto.

Secondo la teoria a stadi denominata “ciclo affettivo dell’infortunio” di O’Connor e coll. (2005) le possibili risposte all’infortunio sarebbero tre: la negazione, l’angoscia e il fronteggiamento. La prima, la negazione, in cui l’atleta rifiuta o nega l’infortunio, risulta essere adattiva nelle fasi iniziali della riabilitazione, ma se dovesse protrarsi anche nelle fasi successive interferirebbe con il processo terapeutico e l’atleta necessiterebbe di un intervento psicologico. L’angoscia deriva invece dalle emozioni negative suscitate dall’infortunio, quali: tristezza, ansia, paura, senso di perdita e dall’alterazione della propria identità di sportivo. Una volta che l’atleta riesce a superare la fase della negazione e a gestire l’angoscia entrerà nella fase del fronteggiamento. Ciò significa entrare in quella fase che permette le migliori condizioni di recupero, attraverso un’adeguata valutazione delle risorse personali, la definizione di obiettivi realistici, una migliore profusione dell’impegno, un’ottimale aderenza al programma riabilitativo e una più efficace cooperazione con il personale medico. 

Modelli motivazionali

La motivazione è un fattore importante in ambito sportivo anche per quanto riguarda gli infortuni, soprattutto nel determinare l’aderenza al programma riabilitativo (Chan e coll., 2011).

Il costrutto dell’autodeterminazione è considerato dagli autori come un continuum ai cui estremi vi sono la demotivazione e la motivazione intrinseca, o autonoma, che è il livello più alto di motivazione ad agire: sono i bisogni interni di competenza, autonomia e relazione a guidare questo tipo di motivazione (Pietrantoni e Prati, 2012). Tra la demotivazione e la motivazione intrinseca ci sono diversi livelli di regolazione (a cui corrispondono diversi gradi di efficacia) dei comportamenti, delle azioni e delle intenzioni ad agire: regolazione esterna, regolazione introiettata, regolazione identificata e regolazione integrata.

Il tipo di motivazione determina la differente reazione al trattamento: ad esempio, un miglioramento della motivazione autonoma aumenta l’impegno, la persistenza e la soddisfazione. Altri fattori positivi di predizione dell’outcome dell’intervento riabilitativo sono il supporto all’autonomia da parte dello staff medico e il supporto sociale.

Sport e disturbi alimentari: alcuni studi (Byrne e McLean, 2002; Sundgot-Borgen e Torstveit, 2004; Torstveit et al, 2008) hanno evidenziato una maggiore prevalenza di Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DAN) nella popolazione adulta di atleti professionisti rispetto ai non atleti e, in particolare, in quegli sport la cui pratica e ideali sono maggiormente “sensibili” al peso e alla forma del corpo (ad es., danza, ginnastica artistica e ritmica).

Inoltre, come nella popolazione normale, la maggioranza sono donne (i risultati di diversi studi attestano la prevalenza di un DAN tra le atlete professioniste tra il 18 e il 28% (Torstveit et al., 2008)) che hanno iniziato a sviluppare il disturbo durante l’adolescenza e, in molti casi, in seguito a una dieta.

Sport e disturbi alimentari nella pubertà

La pubertà può essere un periodo critico dello sviluppo di uno sportivo perché i cambiamenti corporei che avvengono durante questa fase della propria esistenza non sempre ben si adattano alle richieste prestative di un determinato sport e allora si possono subire pressioni dall’esterno (allenatore, preparatore, famigliari) per raggiungere determinati standard; oppure è l’individuo stesso ad avere la sensazione soggettiva che il proprio corpo non si adatti all’ideale specifico dello sport praticato, in questo caso sarà lui stesso a mettersi sotto pressione al fine di raggiungere quello specifico ideale (Drinkwater et al, 2005).

A questo proposito è importante sottolineare che nel mondo dello sport la sempre maggiore e precoce diffusione delle pratiche di specializzazione in un determinato sport, ossia prima della maturazione corporea dei giovani atleti, potrebbe portare a scegliere una pratica sportiva non adatta alle caratteristiche fisiche che si svilupperanno in seguito alla pubertà. Questo è un altro fattore che potrebbe spingere il/la giovane atleta a mettere in atto una serie di comportamenti finalizzati a prevenire o contrastare i naturali cambiamenti fisici che avvengono durante la maturità corporea.

Fattori di rischio associati con lo sviluppo di un Disturbo dell’Alimentazione e della Nutrizione

Generalmente, l’eziologia dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione viene ricondotta a un modello multifattoriale in cui determinati e predisponenti fattori biologici (genetica, genere, ecc.), psicologici (perfezionismo, bassa stima di sé, ansia, ecc.) e sociali (media, cultura, stress, ecc.) interagendo con determinate condizioni ambientali (commenti sul peso e la forma corporea, eventi traumatici, ecc.) sarebbero alla base del manifestarsi e del mantenimento dei sintomi.

I rischi sport-specifici

Oltre ai fattori di rischio generali, sopra elencati, gli atleti possono incontrarne di specifici connessi allo sport praticato, come:

Su quest’ultimo punto vorrei soffermarmi un po’ di più dato che la figura dell’allenatore ha un ruolo particolarmente importante per l’atleta.  

L’allenatore

L’allenatore gioca un ruolo importante nella vita sportiva e non dell’atleta. Di conseguenza, la sua attitudine rispetto al peso e alla forma del corpo dell’atleta può avere un forte impatto sul comportamento di quest’ultimo. Può succedere che un atleta inizi una dieta restrittiva su consiglio dell’allenatore di perdere peso e, come sappiamo, iniziare una dieta, ad es. in adolescenza, può essere un trigger per lo sviluppo di comportamenti connessi a un DAN soprattutto in soggetti più sensibili al manifestarsi di tali disturbi.

Ovviamente, questo fatto non vale per tutti gli individui. Il rischio diminuisce nel momento in cui l’atleta viene seguito da persone competenti e adeguatamente formate, invece, aumenta nel momento in cui a questa richiesta del coach si affiancano conoscenza ed educazione alimentare non adeguate che possono tradursi in commenti azzardati sul peso, o disinformazione sul controllo di quest’ultimo, o ancora nella messa in atto di comportamenti inappropriati che possono mettere in pericolo la salute e il benessere dell’individuo (Bonci et al., 2008).

A tal proposito, sarebbe utile che gli allenatori fossero informati rispetto alle caratteristiche di questi disturbi e a delle efficaci strategie di comunicazione così da prevenire e intervenire tempestivamente, con l’aiuto di un esperto, nel caso ce ne fosse bisogno.

Principali tecniche psicologiche nella riabilitazione

Le principali tecniche psicologiche utilizzate nel processo di riabilitazione sono:

Interventi educativi

Tecniche di ristrutturazione cognitiva e self-talk

Goal setting

(Approfondisci il Goal setting)

Imagery

Tecniche di rilassamento e gestione dello stress

Le tecniche di rilassamento sono essenzialmente di due tipi (Arvinen-Barrow w Walhker, 2013):

  1. Somatiche → servono ad allentare le tensioni del corpo: rilassamento progressivo muscolare di Jacobson, controllo del respiro, respirazione diaframmatica e biofeedback.
  2. Cognitive → si basano sull’assunto che la distensione della mente si possa tradurre in un rilassamento del corpo (Hedgpeth e Sowa, 1998) risultando utili per alleviare dolore e stress: training autogeno (Schultz, 1969).

Tecniche psicofisiologiche

Come il biofeedback (Santi e Pierantoni, 2013), permettono, attraverso il monitoraggio di alcune funzioni biologiche (tensione muscolare, ritmo cardiaco, temperatura corporea), di controllare i cambiamenti del sistema nervoso autonomo e i risultati, di contrastare le percezioni falsate e le errate interpretazioni delle risposte corporee (migliorando fiducia e autoefficacia), e di ridurre ansia e preoccupazioni (Brewer, 2009).

(tratto da “Caratteristiche psicologiche correlate alle diverse fasi di recupero dall’infortunio sportivo: revisione critica della letteratura”. C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015).

Quali sono i fattori psicologici che predicono lo sviluppo di un disturbo dell’alimentazione e il suo mantenimento nel tempo?

Sia l’osservazione clinica che la ricerca empirica suggeriscono che i fattori psicologici giocano un ruolo fondamentale nell’eziologia e nel mantenimento delle patologie dell’alimentazione. La ricerca ha evidenziato la presenza di alti livelli di perfezionismo, bassa fiducia nelle relazioni e paura della maturità. I tratti perfezionistici sarebbero alla base della rigidità del comportamento alimentare, dell’eccessiva enfasi posta al raggiungimento dell’ideale di magrezza e di un peggiore esito del trattamento.

La sfiducia nelle relazioni interpersonali interferirebbe con la possibilità di avere relazioni significative e di poter esprimere i propri sentimenti agli altri, con la conseguente difficoltà nell’autoregolazione delle emozioni negative. La paura della maturità rifletterebbe la difficoltà ad assumersi le responsabilità dell’età adulta e il desiderio di non abbandonare le sicurezze dell’infanzia.

In uno studio del 2013 Holland L. A. et al. hanno indagato come perfezionismo, bassa fiducia nelle relazioni e paura della maturità possano essere predittori dell’insorgenza e del mantenimento di un disturbo dell’alimentazione e della nutrizione a 10 anni di distanza.

I risultati hanno confermato l’importante ruolo dei fattori psicologici come possibili fattori di rischio per l’insorgenza di una patologia dell’alimentazione. Nello specifico, i risultati, hanno avvalorato la tesi secondo cui la paura della maturità sia un importante predittore del manifestarsi di un disturbo dell’alimentazione e della nutrizione sia in adolescenza che in età adulta: la fascia di età a maggiore rischio sarebbe quella che va dai 20 ai 30 anni.

Generalmente, in questo periodo, l’individuo si trova a dover affrontare una serie di cambiamenti (ad es. andare a vivere da solo, cercare un lavoro, il matrimonio, la maternità/paternità, ecc.) che possono portare a una perdita di stabilità personale o di familiarità con la propria esistenza. Da questo punto di vista, il disturbo può configurarsi come un tentativo disfunzionale di recuperare il controllo e di regolazione emotiva. Invece, per quanto riguarda l’influenza della sfiducia interpersonale il suo effetto riguarderebbe solamente l’insorgere della malattia.

Solamente il perfezionismo è risultato essere un fattore di rischio per il mantenimento del disturbo. Gli autori sottolineano come quest’ultimo aspetto sia fondamentale per l’intervento con questi disturbi: un lavoro sul perfezionismo dovrebbe essere uno dei principali target sia per quanto riguarda la prevenzione che la terapia in questo ambito.

In sintesi, alcuni fattori psicologici contribuiscono in maniera differente all’insorgenza e al mantenimento delle patologie alimentari. Perfezionismo, sfiducia nelle relazioni interpersonali e paura della maturità risultano essere predittori per l’insorgere del disturbo, ma solamente il perfezionismo per il suo mantenimento.

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La risposta emotiva nell’infortunio: quali sono i principali fattori psicologici che influenzano l’esperienza dell’infortunio?

Wiese-Bjornstal (1998) ha proposto un modello (Fig. 1) per la comprensione del processo di risposta emotiva e psicologica all’infortunio. Secondo tale modello, la risposta psicologica all’infortunio e al processo riabilitativo dipende dalla valutazione cognitiva a cui vengono sottoposti due ordini di fattori: personali e situazionali.

La risposta emotiva nell’infortunio i fattori personali

I primi si dividono a loro volta in quattro categorie e riguardano:

  1. Infortunio: storia, severità, cause percepite e stato della guarigione.
  2. Differenze individuali: psicologiche, di personalità, percezione di sé stessi, motivazione, tolleranza al dolore, livello di atletismo, capacità di coping (ossia di fronteggiare la situazione), storia dei fattori di stress e umore.
  3. Caratteristiche demografiche: genere, età, etnia, stato socio-economico ed esperienze sportive precedenti.
  4. Caratteristiche fisiche: utilizzo di aiuto ergogenico (ossia fattori esterni che permettono di migliorare la prestazione o il recupero, possono essere meccanici, farmacologici, fisiologici, nutrizionali o psicologici) e disturbi dell’alimentazione e della nutrizione.

I fattori situazionali

Mentre, quelli situazionali si dividono in:

  1. Sport: quale, livello di partecipazione, periodo della stagione e pratica vs competizione.
  2. Sociali: influenza dei compagni di squadra, influenza dell’allenatore, dinamiche familiari, influenze del team medico, supporto sociale e tipo di etica/filosofia sportiva.
  3. Ambiente: tipo di riabilitazione e possibilità di accesso alla riabilitazione.

Valutazione cognitiva

La valutazione cognitiva, da cui poi dipenderanno le risposte emotive e comportamentali, consiste in: regolazione dell’obiettivo, valutazione delle possibilità di recupero, credenze e attribuzioni (rispetto all’infortunio e al recupero), percezione di sé stessi, senso di perdita e dolore, e capacità cognitive di coping.

Secondo questo modello la valutazione del danno causato dall’infortunio riveste un ruolo cruciale nell’influenzare la risposta emotiva e comportamentale durante il processo riabilitativo.

Risposta fisiologica agli infortuni sportivi

Figura 1. Modello integrato di descrizione della risposta psicologica agli infortuni sportivi e al processo di riabilitazione (Wiese-Bjornstal, 1998).

Altri fattori che influenzano la risposta emotiva nell’infortunio e nel processo riabilitativo.

Altri fattori che influenzano il processo riabilitativo e l’infortunio sono i tempi di recupero e il modo in cui si affrontano queste esperienze: se considerati come un ostacolo da superare e un’esperienza da cui trarre degli insegnamenti che possono migliorare la conoscenza che si ha di sé stessi, sia come persona che come atleta, l’esito della riabilitazione sarà migliore e i tempi di recupero più brevi.

L’accettazione precoce dell’infortunio e un atteggiamento proattivo, uniti a una buona conoscenza delle conseguenze legate al trauma e di che cosa comporterà il percorso riabilitativo possono contribuire a dissipare i pensieri e le risposte emotive negative.

Dalla letteratura emerge che le principali paure legate a un infortunio riguardano la perdita d’indipendenza, della propria posizione all’interno della squadra, della forma fisica, di dover chiedere aiuto e della propria identità di sportivo.

Al tema dell’identità sono strettamente legati quelli di fragilità e vulnerabilità che risultano esserne una componente importante nella sua strutturazione. L’emergere di questi sentimenti va a intaccare quelle componenti, quali stima di sé, sicurezza, autoefficacia, consapevolezza delle proprie capacità, che giocano un ruolo importante nei livelli di impegno e prestazione dell’atleta.

risposta emotiva nell’infortunio e percezione di controllo

Un altro aspetto importante legato al processo di recupero è determinato dalla percezione di controllo e responsabilità personali rispetto alle possibilità di recupero. In altre parole, un outcome positivo può dipendere in buona parte da quanto l’atleta sente ed è convinto che il buon esito della riabilitazione dipenda da lui.

McDonald e Hardy (1990) suggeriscono che la riabilitazione sia un processo attivo che impegna gli atleti in una serie di compiti sottolineando così l’importanza di mantenere a un buon livello la motivazione e il focus dell’attenzione sul processo di guarigione.

Altri fattori positivi riguardano il supporto sociale, quello dello staff medico, l’affrontare l’infortunio come un’opportunità per conoscere meglio sé stessi.

Uno degli aspetti emotivamente più difficili nell’affrontare l’infortunio e la riabilitazione concerne l’aderenza alle pratiche riabilitative. Spesso rimanere ingaggiati nel percorso riabilitativo può essere difficile per una serie di motivi e questo può portare a perdita di motivazione, o a non curarne tutti gli aspetti, oppure, una volta che ci si sente meglio, ad abbandonarlo prima che sia terminato con conseguente aumento del rischio di ricadute.

Conclusioni

In sintesi, l’influenza principale del modo di pensare e comportarsi dell’atleta rispetto alla risposta emotiva è determinata dai livelli di concentrazione e di impegno profusi nella riabilitazione, dal tipo di atteggiamento nei confronti della possibilità di ottenere un pieno recupero (ottimismo vs pessimismo). La risposta emotiva dipende dalla capacità di mantenimento della propria stabilità personale, dalla valutazione della situazione, dalla ricerca di supporto sociale, dalla proattività e positività con cui si affrontano infortunio e processo riabilitativo e dal considerare quest’ultimi come delle sfide da affrontare che permetteranno di conoscere meglio sé stessi.

In psicologia dello sport l’infortunio viene considerato un evento critico che può essere determinante per la carriera e il benessere di un atleta. In quest’ottica, diventa importante la sua gestione e quella del periodo di inattività. Secondo Hell e Schulte (2014) l’infortunio si definisce come la risultante di un avvenimento causato da diversi fattori, di tipo bio-psico-sociale, che necessita di un approccio olistico e multidisciplinare (o ancora meglio interdisciplinare) comprensivo sia delle funzioni fisiche sia dei fattori emotivi e cognitivi (in C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015).

Il recupero da un infortunio

Di conseguenza, il recupero da un infortunio è determinato sia dagli aspetti fisici che da quelli psicologici e una sua gestione ottimale implica un’integrazione interprofessionale tra diversi professionisti.

Secondo Pollog (2014) sono quattro le aree personali che vengono coinvolte in un infortunio:

  1. Benessere fisico: dolore, restrizioni temporanee dei movimenti, possibilità di cambiamenti permanenti;
  2. Benessere emotivo: emozioni negative e positive, gestione dell’ansia;
  3. Benessere sociale: perdita del ruolo (importante per l’identità), allontanamento dall’ambiente sportivo, nuove relazioni;
  4. Del Sé: alterazione della propria immagine, minaccia ai propri obiettivi, scoperta della propria vulnerabilità e fragilità, consapevolezza dei limiti fisici, diminuzione della stima di sé e dell’autoefficacia.

Infortunio e caratteristiche personali

Generalmente, l’esperienza vissuta dalla persona è quella di una perdita che è influenzata dalle caratteristiche personali:

Oltre a queste caratteristiche, l’esito della fase riabilitativa ed il successivo ritorno all’attività e alla competizione saranno condizionati da come l’atleta risponderà all’infortunio. Mi preme qui sottolineare che l’intervento dello psicologo dello sport non riguarda solamente la fase post-infortunio, ma include anche gli aspetti legati alla prevenzione e riduzione del rischio.

L’intervento

L’intervento si articola lungo tre fasi in successione temporale: fase acuta post-infortunio, di riabilitazione e di ritorno all’attività. Per ognuna dii esse si possono individuare varie dimensioni psicologiche e specifiche tecniche d’intervento.

Fase acuta post-infortunio

In questa fase le risposte emotive possono essere di rabbia, tristezza, umore depresso, frustrazione, senso di colpa, senso di solitudine, apatia, preoccupazione generale e ansia, paura, comportamento scontroso e sbalzi d’umore, dubbi, sfiducia, percezione d’incapacità e smarrimento connessi al dover affrontare una nuova situazione. Potrebbe anche configurarsi come un evento positivo perché potrebbe determinarsi come un momento di pausa da un periodo di forte stress o come una scusa per abbandonare l’attività (C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015).

Sul versante cognitivo si possono avere fenomeni di castrofizzazione, over-generalizzazione, colpevolizzazione verso sé stessi o altri, personalizzazione, negazione e non accettazione della propria vulnerabilità e fragilità (Brewer, 2009; Tracey, 2010).

Fase di riabilitazione

Gli esiti della riabilitazione dipendono dall’interazione, dinamica e modificabile, di fattori biologici, psicologici e sociali (modello bio-psico-sociale, Brewer, Andersen e Van Raalte, 2002; C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015). Possono essere connessi a un esito positivo o negativo. I primi riguardano l’aderenza al programma riabilitativo, la motivazione intrinseca, la tolleranza al dolore, la forza mentale (mental toughtness), la percezione di gravità dell’infortunio, il senso di autoefficacia e la percezione di supporto sociale. Mentre, i secondi ineriscono i disturbi dell’umore e la paura di infortunarsi nuovamente.

Fase di ritorno all’attività sportiva

Il ritorno all’attività sportiva è determinato da variabili fisiche, demografiche e psicologiche. Le principali, fisiche e demografiche, sono le caratteristiche della lesione, il tipo, le cause, la gravità dell’infortunio, l’età, il sesso, l’origine etnica e lo status socio-economico. Quelle psicologiche riguardano la motivazione, la stima di sé stessi, il fatto di considerare l’infortunio come una sfida da superare, la paura di una ricaduta e di non riuscire a raggiungere i livelli prestazionali pre-infortunio (C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015). Potrebbe capitare che recupero fisico e psichico non procedano di pari passo, questo spiegherebbe quelle situazioni in cui nonostante il totale recupero fisico l’atleta non si sente pronto al rientro.

Intervento psicologico in fase di infortunio

Riassumendo, affinché l’intervento psicologico in fase di infortunio sia efficace e favorisca il miglior outcome possibile deve essere strutturato sulle caratteristiche personali dell’atleta (Hedgpeth e Sowa, 1998) e deve prendere in considerazione diversi aspetti coinvolti dall’infortunio: personali, cognitivi, emotivi, identitari, sociali, esistenziali ed esperienziali. L’obiettivo dell’intervento psicologico in fase riabilitativa è quello di agire sull’umore, fornire capacità di coping proattivo, migliorare l’efficacia percepita, eliminare i pensieri negativi e svilupparne di positivi (Driediger, Hall e Callow, 2006; in C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015). Inoltre, favorisce il mantenimento della motivazione, dell’impegno e l’aderenza ai protocolli di trattamento (Weinberg e Gould, 2010; in C. Conti, S. di Fronso e M. Bertollo, 2015).

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Dott. Alvaro Fornasari Psicologo
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