Il goal setting (definizione degli obiettivi) è una tecnica utilizzata in psicologia dello sport che permette di migliorare le prestazioni in ambito sportivo, il benessere psicofisico dell’atleta e di soddisfare i bisogni psicologici di base. Un obiettivo è generalmente definito come lo stato finale che un individuo si impegna a raggiungere o evitare (Moskovitz, 2012). In ambito sportivo, riguarda lo scopo che un atleta cerca di realizzare in un determinato periodo di tempo (Weinberg, 2013).

Goal setting: obiettivi a breve, medio e lungo termine

Gli obiettivi, temporalmente, possono essere definiti a breve, medio e lungo termine e possono riguardare:

Gli obiettivi di prestazione e processo risultano essere maggiormente controllabili rispetto a quelli di risultato e questo ha importanti conseguenze sul loro raggiungimento, sulla fiducia in sé stessi e sulle proprie capacità, sulla soddisfazione personale e sulla motivazione.

Obiettivi SMARTS e Goal setting

Secondo Weinberg e Gould (2019) per essere efficace gli obiettivi dovrebbero essere SMARTS (acronimo inglese), ossia:

S → specifici

M → misurabili

A → orientati all’azione

R → realistici

T → temporalmente determinati

S → definiti o accettati dall’atleta

Psicologia e obiettivi

Quali influenze ha la definizione degli obiettivi sugli aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali dell’individuo?

Secondo Locke e Latham (1981) sono quattro i meccanismi attraverso i quali gli obiettivi possono aiutare a migliorare la prestazione:

  1. Permettono di dirigere l’attenzione e le energie verso le attività rilevanti per il loro raggiungimento a discapito di quelle irrilevanti
  2. Consentono la messa in atto di un impegno maggiore per l’ottenimento di obiettivi più impegnativi
  3. Influenzano la persistenza nel compito
  4. impattano sull’acquisizione e l’utilizzo di strategie e conoscenze rilevanti per l’esecuzione del compito e sulle abilità di problem solving

Fattori personali e prestazioni

Quali sono i fattori personali che influenzano la prestazione e la definizione degli obiettivi?

Sono diversi i fattori che influenzano la definizione degli obiettivi: differenze individuali, contestuali, ambientali e le caratteristiche degli obiettivi perseguiti: ad esempio l’importanza data al raggiungimento del compito, la sua difficoltà (se è percepita eccessiva o troppo facile), la percezione della possibilità e capacità di riuscire a raggiungere l’obiettivo, il feedback da parte di allenatore, amici o familiari, ecc. Tutti questi fattori hanno importanti influenze sulla prestazione, sull’impegno e la costanza profusi, sul senso di autoefficacia, sulla probabilità di raggiungimento dei/l propri/o obiettivi/o, sul benessere psicofisico e sulla motivazione.

Goal setting e il ruolo dell’allenatore

Un ruolo fondamentale sulle motivazioni alla base del perseguimento degli obiettivi degli atleti è svolto dall’allenatore. Infatti, la ricerca ha dimostrato che quando quest’ultimi utilizzano un approccio orientato a supportare l’autonomia dell’atleta (ad es. attraverso la libertà di scelta, il riconoscimento della prospettiva dell’atleta, ecc.) e mitigano l’uso di comportamenti controllanti (ad es. minacce e/o punizioni) quest’ultimo sarà più propenso a impegnarsi e persistere nel lavoro per raggiungere il proprio obiettivo perché sente proprie e autonome le ragioni per cui lo fa (L. Healy, A. Tincknell-Smith and N. Noumanis, 2018).

In conclusione, il raggiungimento di un obiettivo non riguarda solamente vincere una gara o un trofeo, ma lo sviluppo degli elementi tecnici, tattici, fisici e mentali raggiungibili attraverso l’allenamento al fine di creare le migliori condizioni possibili per ottenere i risultati desiderati (Gramaccioni, 2020).

Fattori psicologici e rischio di infortunio: tra i fattori psicologici che non sono collegati al rischio d’infortunio troviamo quelli di personalità (ad es. introversione/estroversione, perfezionismo, ecc.) e altri come il supporto sociale, la motivazione, ecc. Il fattore psicologico per cui è stata dimostrata una maggiore relazione con il rischio d’infortunio è lo stress.

Ci si ritrova in una condizione di stress ogni qualvolta le richieste della situazione che stiamo affrontando eccedono le nostre risorse. Secondo questa prospettiva, gli atleti che subiscono eventi di vita particolarmente stressanti a fronte di scarse abilità di coping (modo in cui le persone rispondono e fronteggiano situazioni avverse e sfidanti) rischiano maggiormente di subire un infortunio a causa del conseguente calo dell’attenzione e aumento della distraibilità che interferiscono con la prestazione dell’atleta.

Inoltre, lo stress aumenta la tensione muscolare e le difficoltà di coordinazione che accrescono a loro volta il rischio di infortunio. L’utilizzo di tecniche di gestione dello stress e di rilassamento muscolare aiutano a diminuire il tasso d’incidenza degli infortuni.

Reazioni psicologiche all’infortunio

Non esiste una sequenza standard di risposta agli infortuni da parte degli atleti. La reazione psicologica dipenderà molto da fattori individuali, ad esempio il significato che acquisisce l’infortunio per l’atleta, o l’importanza a livello identitario che ha praticare sport per l’individuo, ecc.

Generalmente, le risposte emotive a un infortunio comprendono: tristezza (nei casi più gravi depressione), sentimenti di isolamento, irritazione, mancanza di motivazione, frustrazione, rabbia, alterazioni del ritmo sonno-veglia e dell’alimentazione, e sentimenti di disimpegno.

Aspetti psicologici della riabilitazione

Gli antecedenti psicologici e le reazioni emozionali giocano un ruolo chiave nel processo riabilitativo, sia in senso positivo che negativo. Dunque, risulta necessario includere questi aspetti nel trattamento dell’atleta infortunato.

Diversi studi hanno evidenziato come l’uso di strategie psicologiche quali il goal-setting, il self-talking, la ristrutturazione cognitiva e la visualizzazione siano associate a un recupero più rapido. Inoltre, queste strategie possono essere utili perché diminuiscono lo stress, aumentano i meccanismi di coping e il supporto sociale.

D’altro canto, la riabilitazione può essere inficiata da reazioni psicologiche ed emotive negative come la possibile frattura identitaria conseguente all’infortunio, paura, ansia e perdita di fiducia in sé stessi.

Fattori psicologici e rischio di infortunio

Vi sono degli indicatori emotivi, cognitivi e comportamentali che possono fungere da cartina da tornasole per comprendere la bontà della risposta dell’individuo all’infortunio (possono variare d’intensità e qualità durante il percorso riabilitativo):

Trattamento degli atleti infortunati

Infine, nel trattamento degli atleti infortunati è utile tenere in considerazione una serie di aspetti:

In conclusione, i fattori psicologici hanno un ruolo importante nell’insorgere degli infortuni, nel processo riabilitativo e nell’outcome di quest’ultimo. Di conseguenza, vanno tenuti in forte considerazione nel percorso di cura.

Dal 25 luglio, fino al 24 ottobre, è possibile fare richiesta del bonus psicologo. La richiesta deve avvenire tramite il portale dell’INPS (https://www.inps.it/) compilando l’apposito modulo

Per poter accedere al servizio è necessaria l’autenticazione digitale con SPID (Identità digitale), CIE (Carta d’identità elettronica), PIN o CNS (Carta Nazionale dei Servizi): per sapere chi può richiederlo e le norme attuative visita il link https://www.psicologovigevano.com/bonus-psicologo-le-norme-attuative/

Una volta concluso il periodo di presentazione delle domande l’Inps redigerà le graduatorie, comunicherà un codice univoco (da comunicare successivamente al professionista scelto)che attesterà l’accoglimento della domanda e specificherà l’importo totale, che va da un minimo di 200 a un massimo di 600 euro (l’importo massimo utilizzabile per una singola seduta è di 50 euro), di cui si potrà beneficiare. Il bonus dovrà essere utilizzato entro 180 giorni dalla data di accoglimento della domanda. 

Gli elenchi dei professionisti che avranno aderito al bonus saranno visibili, solo ai cittadini beneficiari, direttamente sul portale dell’INPS.

Importante, dato che il fondo è limitato (20 milioni di euro), le graduatorie sono a scorrimento fino ad esaurimento fondi. Dunque, non tutti potranno beneficiarne, si stima che avranno accesso all’iniziativa circa 16 mila cittadini. Inoltre, in caso di non utilizzo del bonus entro 180 giorni dalla data di accoglimento della domanda il codice univoco verrà automaticamente annullato e l’importo non utilizzato verrà riassegnato a nuovi beneficiari nel rispetto delle graduatorie.

Nella Conferenza Stato Regioni del 28 aprile è stato approvato il decreto del Ministero della Salute di concerto con il Ministero dell’Economia che stabilisce le modalità di presentazione della domanda, l’entità e i requisiti per l’assegnazione del bonus psicologo.

Principali punti del Bonus Psicologo

Vediamo i principali punti che riguardano le persone interessate.

Potranno beneficiarne, una sola volta, le persone in condizione di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica, a causa dell’emergenza pandemica e della conseguente crisi socio-economica, che siano in condizione di beneficiare di un percorso terapeutico (Art. 1) e con reddito ISEE in corso di validità, ordinario o corrente non superiore ai 50.000 euro (Art. 4).

Potrà essere utilizzato, per sostenere le spese relative a sedute di psicoterapia, presso specialisti privati regolarmente iscritti nell’elenco degli psicoterapeuti, nell’ambito dell’albo degli psicologi, che abbiano comunicato l’adesione all’iniziativa all’ordine professionale di appartenenza (art. 3).

Contributi per il Bonus Psicologo

L’entità del contributo è parametrata secondo tre diverse fasce dell’ISEE (Art. 4):

La richiesta dovrà essere presentata in modalità telematica all’INPS (Art. 5) che, una volta redatte le graduatorie e individuati i beneficiari, comunicherà direttamente a loro l’accoglimento della domanda, l’importo del contributo e un codice univoco (Art. 7) che dovrà essere comunicato al professionista che erogherà la prestazione. Dopodiché, si avranno 180 giorni a disposizione per poter utilizzare il bonus (Art. 5).

Sommario dell'articolo

Nei principali manuali diagnostici utilizzati dai clinici della salute mentale l’Anoressia Nervosa viene classificata come un disturbo dell’alimentazione e della nutrizione o del comportamento alimentare. Questa modalità di categorizzazione ha importanti risvolti per quanto concerne il tipo di trattamento necessario per curarla.  

Anoressia nervosa: livelli di intervento

Secondo le linee guida per il trattamento di persone con Disturbo dell’Alimentazione e della Nutrizione dell’American Psychiatric Association (APA, 2012) sono tre i livelli d’intervento per l’Anoressia (AN): la riabilitazione nutrizionale, l’intervento medico e quello psicosociale.

Lo scopo dei primi due livelli è quello di correggere il peso e il comportamento alimentare. Invece, nel terzo si dovrebbero curare quei sintomi che non sono direttamente correlati all’alimentazione come ad esempio la paura, l’evitamento e la distorta percezione corporea.

Di conseguenza, sempre in accordo con le linee guida dell’APA, l’obiettivo dell’intervento psicosociale per i pazienti con AN dovrebbe aiutarli:

Terapie per il trattamento dell'anoressia nervosa

Le terapie comunemente più utilizzate, in ambito psicosociale, sono quella cognitivo-comportamentale e quella sistemico-relazionale per bambini e adolescenti: la prima concentra il proprio intervento sugli aspetti cognitivi e comportamentali disfunzionali connessi al cibo, mentre la seconda sulle criticità del sistema familiare.

L’AN è un disturbo complesso, caratterizzato da fattori genetici, fisiologici, contestuali, culturali, familiari, emotivi, relazionali, identitari e individuali, e come tale necessita di un intervento articolato su diversi livelli. Ad esempio, nessuno dei due tipi d’intervento precedentemente citati ha come target d’intervento l’immagine corporea (o schema corporeo) nonostante la letteratura la indichi essere il miglior predittore della fluttuazione dei sintomi nei disturbi alimentari, delle ricadute e del recupero a lungo termine.

Anoressia nervosa e immagine corporea

Essendo quello dell’immagine corporea un costrutto complesso e multidimensionale, composto da aspetti cognitivi, concettuali, emotivi e percettivi (percezione visuo-spaziale, propriocettiva, enterocettiva e vestibolare), focalizzare l’intervento esclusivamente sul lato cognitivo-comportamentale vuol dire prendere in considerazione solamente una frazione di un costrutto così complesso. Ma, soprattutto, significa escludere forse l’aspetto più importante, ossia, l’esperienza soggettiva del proprio corpo, di sé stessi (chi sono io?) e del proprio rapporto con gli altri e con il mondo.

A sostegno della tesi che la percezione corporea abbia un ruolo centrale nell’AN alcuni studiosi sottolineano l’alta frequenza di comorbidità tra AN e il disturbo di dismorfismo corporeo (BDD – Body Dysmorphic Disorder). Quest’ultimo è stato inserito nel DSM-5 (APA, 2014) all’interno dei disturbi ossessivo-compulsivi e viene definito come una preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve.

Secondo Clausen (2011) il miglior predittore per l’AN è il deficit enterocettivo, ossia della sensibilità alle condizioni fisiologiche e degli stati interni del corpo: un miglioramento delle capacità enterocettive porta a un decremento dei sintomi anoressici (Merwin, 2010).

Deficit della percezione corporea

Un altro aspetto interessante, sollevato da alcuni ricercatori, inerente al deficit della percezione corporea negli individui con AN riguarda il problema dell’integrazione dei segnali enterocettivi e propriocettivi con quelli esterocettivi, come quelli visivi: il deficit in questa integrazione potrebbe spiegare come mai i soggetti con AN vedono un’immagine distorta quando si vedono allo specchio.

Il contenuto di questa prima parte l’ho estrapolato da un articolo di Catherine Stinson il cui titolo ha attirato la mia attenzione di psicoterapeuta di formazione fenomenologica, The Absent Body in Psychiatric Diagnosis, Treatment and Research, dato che non è così scontato trovare materiale sui Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione che prenda in considerazione il corpo vivo (Leib) o la corporeità, e non soltanto il corpo biologico (Korper), nella sua trattazione. All’inizio l’intenzione dell’autrice, ossia quella di prendere in considerazione la complessità di tali disturbi e di non considerarli esclusivamente per la loro inerenza all’ambito alimentare, mi sembrava interessante, se non che con il proseguire della sua analisi quest’ultima si sia focalizzata solamente sul concetto di immagine corporea da molti considerato essere uno dei pilastri su cui si strutturano questi disturbi.

Comportamento alimentare e soggetto

Lo scopo della ricercatrice è quello di metterci al riparo dall’errore di considerare, nel loro trattamento, tali disturbi come esclusivamente connessi al comportamento alimentare, salvo poi cadere nello stesso errore che avrebbe voluto correggere, ossia escludere dall’analisi l’esperienza soggettiva dell’individuo e del proprio corpo nel rapporto con l’altro e con il mondo.

Quest’ultima considerazione assume la sua importanza alla luce del fatto che per riuscire a rendere conto dell’insorgenza e del mantenimento delle diverse patologie dell’alimentazione, appare necessario ricercare il nucleo patologico nel vissuto stesso dei pazienti, con specifico riferimento alle peculiari modalità corporeo-esperienziali che questi adottano per mantenere un adeguato senso di stabilità personale (Liccione D., 2011-2019, pp. 217).

Ad esempio, per chi soffre di AN, la cui esperienza è caratterizzata dalla costante sensazione di essere affamati, il corpo gioca un ruolo cruciale nel mantenere il senso di stabilità personale, invece per chi soffre di Bulimia Nervosa o di Binge-eating Disorder, la cui esperienza è caratterizzata dal bisogno di essere approvati dagli altri, il corpo da una parte aderisce, idealmente, a un parametro impersonale di adeguatezza estetica per favorire una co-percezione positiva di sé, dall’altra, al posto della persona nella sua interezza, come bersaglio dell’eventuale giudizio negativo da parte degli altri (Ibidem).

sommario

Grazie al via libera delle commissioni riunite Affari costituzionali e Bilancio, nella notte fra il 16 e 17 febbraio, è stato inserito all’interno del Ddl milleproroghe il “bonus psicologico”.

Cos'è il bonus psicologico

Si tratta di una sorta di voucher che gli italiani potranno utilizzare per usufruire di sessioni di psicoterapia fruibili presso specialisti privati regolarmente iscritti all’albo degli psicoterapeuti. L’entità del bonus, che potrà arrivare ad un massimo di 600 euro, sarà calcolata, in maniera progressiva, in base alle diverse fasce Isee (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) al fine di sostenere le persone con Isee più basso: saranno esclusi da tale misura coloro che hanno un Isee superiore ai 50mila euro.

Modalità per la domanda del bonus psicologico

Rimangono ancora da definire le modalità di presentazione della domanda per accedervi, nonché l’entità e i requisiti reddituali per la sua assegnazione che saranno definiti da un decreto del ministero della Salute in concerto con quello dell’Economia: l’ipotesi è che ciò avvenga tramite impegnativa del medico di base. Una volta approvata la conversione in legge del Decreto Milleproroghe saranno 30 i giorni a disposizione per l’adozione delle norme destinate a dare il via al bonus.

Bonus psicologico e disagio

Nel testo dell’emendamento si legge che questa misura è stata introdotta al fine di intervenire in quelle situazioni di depressione, ansia, stress, disagio psicologico e difficoltà socio-economiche causate dalla pandemia da Sars covid-19.

Probabilmente questa non è la misura migliore per contrastare gli effetti, in termini di disagio psicologico, causati dalla pandemia, ma è un primo passo verso quella direzione che testimonia la crescente sensibilità, anche da parte del governo, verso un tema ancora troppo trascurato come quello delle difficoltà psicologiche ed esistenziali e che permetterà, almeno, un primo intervento al fine di attenuare tali problematicità.

Cambiamento terapeutico: uno degli aspetti cardine di qualsiasi psicoterapia riguarda il tema del cambiamento, ossia il passaggio da una condizione iniziale non desiderata o di malessere ad una ambita. Una possibilità dell’evolversi di questo processo si snoda attraverso diverse fasi che, partendo dall’iniziale presa di coscienza della responsabilità (consapevolezza) per la propria condizione esistenziale, si articolano in un percorso che dovrebbe sfociare nell’azione.

Volontà nel cambiamento terapeutico

Un ruolo centrale all’interno di questo cammino lo riveste la volontà. Yalom (pp. 352, 2019), attraverso le considerazioni di altri autori, prova a definirne caratteristiche e funzioni:

È l’istanza mentale che trasforma la consapevolezza e la conoscenza in azione, è il ponte tra desiderio e atto. È la condizione mentale che precede l’azione (Aristotele). È l’organo del futuro spirituale, proprio come la memoria è l’organo spirituale del passato (Arendt). È il potere dell’iniziare spontaneamente una serie successiva di cose (Kant). È la sede della volizione, il “fattore determinante responsabile” (Faber). È il “fattore decisivo per traslare l’equilibrio in un processo di cambiamento… un atto che si verifica tra l’intuizione interna è l’azione che è sperimentata come sforzo o determinazione” (Wheelis). È l’assunzione della responsabilità, in quanto contrapposta alla presa di coscienza della responsabilità. È quella parte della struttura psichica che ha la “capacità di fare e implementare le scelte” (Arieti). È una forza composta da potere e desiderio, l’”innesco dello sforzo”, la “molla principale dell’azione”.

Trascendenza di sé stessi nel futuro con il cambiamento terapeutico

La volontà implica la trascendenza di sé stessi nel futuro (al di là, oltre) con determinazione e impegno attraverso i propri progetti (desideri): questo è il tempo del cambiamento. Dunque, per cambiare bisogna riuscire a influenzare la propria volontà: alcune patologie (ad esempio il Disturbo Ossessivo-Compulsivo) esercitano un ottundimento della volontà.

Spesso, l’inadeguatezza volitiva è determinata dall’incapacità di provare emozioni e dal senso di colpa. Quante volte ci succede di volere qualcosa ma non riusciamo a mettere in atto le condotte e le azioni necessarie per raggiungerla a causa dei sensi di colpa che ciò provocherebbe?

Da dove inizia questo cambiamento?

Ma da dove ha inizio questo processo? Secondo Rollo May (L’amore e la volontà, 1978), esso scaturisce dal desiderio: si può agire per se stessi solo se si ha accesso ai propri desideri (Yalom, 2019). Come possiamo volere qualcosa e proiettarci nel futuro se non siamo mossi da un desiderio di base?

Prima fase del cambiamento: riconoscere i propri desideri

Di conseguenza, la prima fase del processo di cambiamento dovrebbe riguardare il riconoscimento dei propri desideri. L’incapacità di desiderare può portare, da una parte, ad una sorta di impulsività in cui l’individuo non essendo in grado di discernere tra i vari desideri cerca di realizzarli tutti e, dall’altra, a sperimentare il desiderio come un’imposizione dall’esterno (compulsione), un dovere a cui sottomettersi al fine di evitare il forte disagio che provocherebbe il non metterlo in atto.

Fase decisionale del cambiamento terapeutico

Una volta diventati consapevoli del proprio desiderio si passa alla fase successiva, quella della scelta o decisione: la “decisione” si riferisce a un’ampia gamma di attività che corrispondono a diverse esperienze soggettive, che implicano diversi livelli di sforzo, razionalità, coscienza, impulsività e senso di responsabilità (Yalom, pp. 584, 2019).

Spesso le persone, in questa fase, sperimentano indecisione e immobilità non riuscendo a impegnarsi per raggiungere i propri obiettivi. I motivi che portano a questo blocco possono essere diversi.

Scegliere una o più possibilità significa escluderne altre, ossia rinunciare a qualcosa e fare i conti con i propri limiti; in casi estremi la scelta potrebbe essere irreversibile e non permettere alla persona di poter tornare sui suoi passi o, a causa della narrazione che facciamo della nostra situazione, potremmo esserci convinti di non avere altre possibilità, o di averne solo una (generalmente quella non desiderata), e sentirci in gabbia.

A volte, invece, ad arrestare il processo decisionale è il senso di colpa che scaturirebbe dall’agire una delle opzioni a nostra disposizione.

Forme del processo di cambiamento

La paralisi della scelta e, di conseguenza, del processo di cambiamento può assumere diverse forme (Yalom, 2019): la procrastinazione, la minimizzazione di ciò a cui si deve rinunciare, la distorsione delle informazioni (dissonanza cognitiva), o la delega della decisione a qualcun altro o qualcos’altro (ad esempio il fato o le regole).

Terza fase: assunzione di responsabilità

In fine, l’ultima fase del processo di cambiamento riguarda l’assunzione di responsabilità, impegno e fatica di agire e mettersi in movimento verso ciò che si è scelto, ossia se stessi.

Il concetto di responsabilità

In psicologia e in psicoterapia ci sono temi che vengono trattati solo marginalmente perché non hanno una rilevanza clinica, ciononostante hanno un importante impatto sull’esistenza delle persone: uno di questi riguarda il concetto di responsabilità.

In un’ottica esistenziale e di salute mentale, tale termine implica:

  1. la condizione di libertà rispetto alla possibilità di scegliere quale comportamento avere in una determinata situazione (condotta razionale);
  2. la costanza e congruenza di tale comportamento nel tempo (impegno morale), ad esempio rispetto a una promessa fatta;
  3. l’autorialità dell’esperienza e delle sue conseguenze.

Essere consapevoli della propria responsabilità

In questi termini, risulta subito evidente come tali implicazioni possano avere importanti risvolti per la situazione esistenziale delle persone e per la riuscita di una terapia. Infatti, secondo Yalom (2019), essere consapevoli della responsabilità significa essere consapevoli del creare il proprio sé, il proprio destino, le proprie situazioni difficili nella vita, i propri sentimenti e, se dovesse essere il caso, la propria sofferenza. In altre parole, siamo noi i fautori, i costruttori di noi stessi, del nostro mondo, del nostro benessere e malessere, tutto questo, la nostra esistenza è responsabilità nostra.

Cosa succede se non mi assumo tale responsabilità?

Spesso accade che le persone, anche inconsapevolmente, non riescano o non siano in grado di assumersi una siffatta responsabilità. Esistono quattro modalità di evitamento dell’assunzione di responsabilità (Yalom, 2019): la compulsione, il dislocamento della responsabilità su di un’altra persona, la negazione della responsabilità e l’evitare un comportamento autonomo.

La compulsione

Nel primo caso, la compulsione, l’individuo sperimenta un mondo in assenza di libertà e di scelta, come se fosse governato da una forza esterna che controlla il suo comportamento.

Il dislocamento

Nel dislocamento della responsabilità, condizione molto diffusa in terapia, la persona scarica il peso della responsabilità sull’Altro (ad es. il terapeuta). Questa è la classica situazione in cui colpevolizziamo gli altri dei nostri sentimenti, fallimenti, ecc.

La negazione

La negazione della responsabilità può assumere due forme, quello della vittima innocente, in cui il soggetto, attraverso una più o meno sofisticata manipolazione, crea le condizioni che gli permettono di recitare il ruolo della vittima o del “finto tonto” addossando così la colpa di ciò che gli succede agli altri, e quella della perdita, temporanea e deliberata, del controllo di sé e delle proprie azioni che permette di evitare l’assunzione della propria responsabilità e anche di ricevere un sostegno emotivo e/o affettivo (ad es. all’interno di una relazione intima).

L'evitamento

L’evitamento di un comportamento autonomo riguarda quelle situazioni in cui sappiamo cosa potremmo fare per stare meglio ma non agiamo in tal senso e aspettiamo che siano gli altri a rivolger-si verso di noi per aiutarci e tirarci fuori da una situazione di difficoltà: questa è la classica condizione in cui si possono sperimentare sentimenti di isolamento e dipendenza. Quest’ultima modalità, nella sua forma patologica, è tipica di chi ha una personalità dipendente.

Secondo Sartre, la nostra vita è costituita dalle scelte che facciamo, ma scegliere ci pone di fronte all’assunzione di responsabilità e al fondamento del nostro essere, ossia al fatto che si è soli nell’attuarle. Tale confronto può allora portare ad evitare la responsabilità (fondamentale nel processo di cambiamento) smorzando il proprio desiderare o sentire, abdicando la scelta, o delegandola ad altri (individui, istituzioni, eventi esterni, ecc.) (Yalom, 2019).

L’Indice di Massa Corporea (Body Mass Index - BMI) è un indice utilizzato nella valutazione antropometrica dello stato nutrizionale che mette in correlazione peso e altezza. Si ottiene dividendo il peso corporeo (kg) per la statura (metri) al quadrato (ICM= peso/(altezza)2).

Indice di massa corporea: indicatore di sovrappeso e obesità

Attualmente è l’indicatore più utilizzato nella valutazione clinica e nella classificazione del sovrappeso e dell’obesità. Nel 1985 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito i valori dell’ICM con cui discriminare le condizioni di sottopeso, normopeso, sovrappeso e obesità.

Classificazione Indice di massa corporea

Classificazione del peso in base all’ICM (OMS, 1985)

CLASSIFICAZIONE

ICM

RISCHIO DI MALATTIA

SOTTOPESO

< 18.5

BASSO

NORMOPESO

18.5 – 24.9

NORMALE

SOVRAPPESO

25 – 29.9

AUMENTATO

OBESITÀ CLASSE I

30 – 34.9

MODERATO

OBESITÀ CLASSE II

35 – 39.9

SEVERO

OBESITÀ CLASSE III

> 40

MOLTO SEVERO

Le classi in cui è stato suddiviso l’ICM permettono una valutazione quantitativa del rischio di sviluppare patologie correlate alla malnutrizione. Diversi studi hanno infatti dimostrato che a partire da un ICM maggiore di 25 aumentano i rischi per la salute con una diminuzione della spettanza di vita e un peggioramento della qualità di vita.

Le condizioni di salute e di vita migliori corrispondono all’intervallo di valori compreso tra 18.5 e 25.

Limiti dell’indice di massa corporea

Nonostante il suo diffuso utilizzo nella valutazione clinica, i risultati forniti dall’impiego dell’ICM presentano diversi limiti. Innanzitutto, non consente di valutare la composizione corporea, infatti, non permette di discriminare tra massa grassa e magra. Di conseguenza, non essendo sufficiente per effettuare una valutazione obiettiva della composizione corporea, deve essere contestualizzato in base alla composizione corporea e alla storia del peso.

Inoltre, tale caratteristica, non permette di interpretare, soprattutto in associazione all’attività fisica, una sua variazione in negativo come la reale perdita di massa grassa o magra. Oltre che con l’attività fisica, sono state riscontrate significative discordanze, nella correlazione tra ICM e massa grassa, in relazione ad etnia, età e stati patologici che causano alterazioni dello stato di idratazione.

Non può essere utilizzato per i soggetti minori di 18 anni, dato che, in età evolutiva, l’ICM aumenta all’aumentare dell’età.

In conclusione, l’ICM risulta essere un indice utile a livello epidemiologico, ma nella pratica clinica il suo utilizzo si riduce allo screening iniziale, dato che è un indicatore a bassa sensibilità e specificità, e non permette di porre una diagnosi di eccesso di adiposità.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce il sovrappeso e l’obesità come condizioni caratterizzate da eccessivo peso corporeo per accumulo di tessuto adiposo, tale da influire negativamente sullo stato di salute del singolo individuo, condizione che inficia la qualità e l’aspettativa di vita (6-7 anni di vita in meno per una condizione di obesità a 40 anni). Infatti, l’eccesso di peso si associa spesso a un elevato numero di patologie croniche (ad es. diabete di tipo 2, ipertensione arteriosa e cardiopatia ischemica).

Obesità come malattia cronica

L’obesità è ormai considerata una malattia cronica, quindi con evoluzione tendente al peggioramento, caratterizzata da eziologia multifattoriale, danno organico, sofferenza psicologica ed esistenziale, difficoltà nelle relazioni sociali e interpersonali.

Classificata come primaria e secondaria

Viene classificata in primaria (o essenziale) e secondaria. Nella prima categoria rientrano tutte quelle forme (oltre il 90% dei casi) di cui non si riesce a individuare l’esatta causa eziologica essendo determinata dall’interazione di diversi fattori: genetici, metabolici, nutrizionali, sociali e culturali.

Invece, quelle secondarie sono definite da cause note e comprendono forme di origine genetica, forme derivanti da disfunzione ipotalamica, forme legate a malattie endocrine (sindrome di Cushing, ipotiroidismo) e forme motivate da Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione.

Da cosa dipende lo sviluppo dell’obesità

Come abbiamo visto le più comuni forme di obesità sono a eziologia multifattoriale risultante da una complessa e reciproca influenza tra genetica e ambiente. Dunque, lo sviluppo della malattia è determinato dall’interazione, da una parte, di fattori ereditari genetici che influenzano per il 40-70% il valore dell’Indice di Massa Corporea (IMC), la composizione corporea, la distribuzione di grasso viscerale e della massa grassa dell’adulto, e, dall’altra, di fattori ambientali quali abitudini alimentari, stile di vita (attività fisica, consumo di alcool), condizioni socio-culturali (livello educativo, situazione occupazionale e suoi cambiamenti, stato civile, condizioni abitative, relazioni sociali), status economico (le forme più gravi di obesità predominano nelle fasce di popolazione con più basso livello socio-economico), condizioni fisiologiche (sesso, età, malattie) e terapie farmacologiche.

Percorso terapeutico come processo di controllo

La complessità del problema e la sua natura cronica rendono la cura complicata e la guarigione rara: è più utile vedere il percorso terapeutico come un processo di controllo della malattia che dura per tutta la vita.

Di fatto, l’obesità si caratterizza per essere una malattia in cui la recidiva e il recupero del peso sono comuni e il trattamento è spesso più frustrante della malattia. Inoltre, ad aggravare il quadro si aggiunge la condizione che, spesso, in circa i due terzi dei casi, l’obesità è in comorbidità con altre patologie croniche: malattie metaboliche (diabete di tipo II, dislipidemia, infertilità femminile, sindrome dell’ovaio policistico, ecc.), neoplasie, malattie cardiovascolari, asma, apnee ostruttive notturne, osteoartrite, disturbi psicologici (ansia, depressione, isolamento sociale), reflusso gastroesofageo, incontinenza urinaria, fascite plantare, ecc.

Tutte queste caratteristiche fanno si che il percorso di cura dell’obesità richieda la messa in campo di diverse professionalità, ossia di un’equipe multidisciplinare che sia in grado di prendere in carico la molteplicità di difficoltà che riguardano la persona con obesità.

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Dott. Alvaro Fornasari Psicologo
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